Tutele crescenti: la Consulta dichiara l'incostituzionalità dell’art. 4 del D.Lgs. n. 23 del 4 marzo 2015

La Corte Costituzionale si pronuncia nuovamente in tema di contratto a tutele crescenti.

La Consulta, con sentenza n. 150 del 24 giugno 2020, è intervenuta sull’art. 4 del D.Lgs. n. 23/2015, che disciplina l’indennità risarcitoria per i licenziamenti affetti da vizi formali e procedurali, dichiarandone l'incostituzionalità in quanto in tali recessi, seppur di fattispecie minori, non ci può essere “un unico criterio rigido ed automatico”.

Le questioni di costituzionalità erano state sollevate dai Tribunali di Bari e di Roma, i quali hanno messo in discussione la legittimità costituzionale della norma relativa ai contratti a tutele crescenti, nella parte in cui prevede, per il licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o della procedura di cui all’art. 7 della Legge 20 maggio 1970, n. 300, la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» e attribuisce così rilievo esclusivo, ai fini della quantificazione dell’indennità, al criterio dell’anzianità di servizio.

La Corte esordisce sottolineando l'importanza dell’obbligo di motivazione in capo all'azienda.

Tale obbligo, inizialmente subordinato a una specifica richiesta del lavoratore, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 1, comma 37, della Legge n. 92 del 2012 ha assunto caratteri sempre più stringenti.

Il datore di lavoro è, infatti, obbligato a rendere le giustificazioni che hanno portato al licenziamento “secondo il principio di buona fede che permea ogni rapporto obbligatorio e vincola le parti a comportamenti univoci e trasparenti”, questo anche al fine di delimitare il potere unilaterale dello stesso e a comprimerne ogni manifestazione arbitraria.

La sentenza specifica poi come la violazione delle prescrizioni formali e procedurali, rischia di far disperdere gli elementi di prova che si possono acquisire nell’immediatezza dei fatti e attraverso un sollecito contraddittorio incidendo così sull’effettiva possibilità del lavoratore di difendersi.

Fatte queste premesse, la Consulta riconducendo l’obbligo di motivazione e la regola del contraddittorio sia al principio di tutela del lavoro, enunciato dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, sia ai principi di eguaglianza e di ragionevolezza previsti dall'art. 3 della Costituzione, sottolinea come la disciplina del licenziamento affetto da vizi di forma e di procedura, proprio per gli interessi di rilievo costituzionale che sono stati richiamati, debba essere incardinata nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, in modo da garantire una tutela adeguata.

Nella sostanza, come già avvenuto con la sentenza 194/2018, il giudice viene rimesso al centro del giudizio, non limitandosi più a fare un mero calcolo matematico legato alla sola anzianità di servizio, ma valutando le peculiarità del caso specifico al fine di definire l'importo dell'indennità spettante al lavoratore.

In un’ottica di continuità non si sarebbe potuti arrivare ad una diversa conclusione: un sistema che, solo per i vizi formali, lasci inalterato un criterio di determinazione dell’indennità imperniato sulla sola anzianità di servizio non potrebbe che accentuare le diversità di una disciplina dei licenziamenti, già attraversata da molteplici distinzioni.

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